La cucina italiana si è
sviluppata attraverso secoli di cambiamenti politici e sociali, con radici che
risalgono al IV secolo a.C. La cucina italiana stessa è stata
influenzata dalla cucina dell'antica Grecia, dell'antica Roma, bizantina, ebraica e araba e normanna. Importanti mutamenti si ebbero con
la scoperta del Nuovo
Mondo e
l'introduzione di nuovi ingredienti come patate, pomodori, peperoni e il mais, ora fondamentali nella cucina ma introdotti
in quantità solo nel XVIII secolo.
La cucina italiana è conosciuta per la propria diversità a livello regionale,
abbondanza nel gusto e nei condimenti, è inoltre ritenuta la più famosa nel
mondo, con influenze a livello internazionale, tanto che l'emittente televisiva
statunitense CNN la colloca al primo posto tra le
cucine più apprezzate a livello globale.[1]
La
caratteristica principale della cucina italiana è la sua estrema semplicità,
con molti piatti composti da 4 fino ad 8 ingredienti. I cuochi Italiani fanno
affidamento sulla qualità degli ingredienti piuttosto che sulla complessità di
preparazione. I piatti e le ricette, spesso, sono stati creati dalle nonne più
che dagli chef, ed è per questo che molte ricette
sono adatte alla cucina casalinga. Molti piatti che una volta erano conosciuti
solo nelle regioni di provenienza, si sono diffusi in tutta la nazione. Il formaggio ed il vino costituiscono una parte importante
della cucina, con molte variazioni e una tutela legale specifica, la Denominazione di
origine controllata (DOC). Anche il caffè,
specialmente l'espresso,
è divenuto importante nella cucina italiana.

Storia della cucina italiana dell'Ottocento
La cucina ottocentesca italiana è caratterizzata
dal proliferare dei ricettari domestici municipali, da una crescente attenzione
alle esigenze delle case borghesi, sia in materia di costi che di
approvvigionamenti, e da una editoria vivace che si rivolge alla famiglia e
attraverso di lei alla servitù.
I libri di cucina, di modesta
apparenza, offrono un ritratto gastronomico moderno delle classi abbienti,
lontano sia dall'autarchia rurale che dal cerimoniale di corte, sempre attento
al costo delle vivande e alle competenze della servitù. Il ricettario
municipale non è dunque lo specchio di una economia e di una cucina di
territorio, ma di una classe che, a tavola, nelle buone occasioni, prende le
distanze da essa, e ostenta una certa cultura.
Le vivande viaggiano da città a città,
e nei centri importanti la nozione di cucina casalinga è aperta a prestiti e a
curiosità.
Questi ricettari si rivolgono, da
Napoli a Milano o Palermo a «madri di famiglia, o donne di governo, o
uomini che, non portati alle cure più gravi, si fanno dell'arte di condir le
vivande, una innocente occupazione».
Le ricette riflettono un gusto per le
preparazioni semplici, ma non necessariamente locali. Figurano le frittelle
alla romana, i maccheroni alla napoletana (con ragù al pomodoro) e alla
milanese (con burro e parmigiano grattugiato). Se la pertinenza dell'origine di
questi ultimi è discutibile, la presenza di gattò, sartù e pasta bignè non ha
bisogno di essere giustificata altrimenti che con il modello francese.
I ricettari domestici del XIX sec.
rendono sempre più ibridi il modello francese e il patrimonio locale mescolando
piatti d'ineguale costo e impegno, fondendo tradizioni di casa e d'osteria,
semplificando i piatti complessi e arricchendo quelli popolari.
Ovviamente la cucina di casa non è
l'unico argomento dei ricettari rivolti al mercato. Chi ambisce a una tavola
ricca e diversificata, per esempio a Napoli, può consultare libri come “La
cucina teorico pratica” di Ippolito Cavalcanti duca di Bonvicino (1837).
Testi del genere sono sopratutto
destinati ai professionisti. Utili ad offrire una testimonianza della ricerca
culinaria, e ad aggiornare coloro che operano ad alto livello, senza economia.
Si tratta di raccolte destinate a mostrare come si decora il piatto e lo si
serve in tavola. La loro pubblicazione è giustificata dall'apertura dei grandi
alberghi turistici con ristoranti, dalla formazione dei cuochi, e dopo l'unità
d'Italia dalla crescente sensibilità per una terminologia nazionale.

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